La voce, il Cancro, l’arte e la tecnologia ( by Salvatore Iaconesi )
le storie vanno alimentate, sopratutto quando sono “vive” e prendono energia anche dal loro racconto.
La Cura è la storia di un uomo, il suo pensiero e una malattia: il Cancro, ma, è anche credere che la cura spesso siamo tutti noi.
cosi la Cura diventa, nel 2013 un ecosistema interattivo che reagisce e oggi nel 2020 di nuovo condivisione e comunicazione.
Pubblichiamo questo racconto così come è, perché meglio non si potrebbe, direttamente dalle parole del suo protagonista Salvatore Iaconesi che dalle pagine di Artribune ci parla de “La voce, il Cancro, l’arte e la tecnologia ” iniziando con una domanda:
CHE COSA HO IMPARATO DAL CANCRO?
Parte da questa domanda il racconto di salvatore iaconesi, impegnato da anni, insieme alla moglie Oriana Persico, in una ricerca al confine tra arte e tecnologia, usando i dati come strumento e la malattia come mezzo per elaborare una cura collettiva.
Non mi ricordo esattamente quando mi è cambiata la voce. Prima, da piccolo, quando abitavo a La Spezia, poi a Roma, e poi anche a Philadelphia, cantavo.
Non ne sono certo – è passato troppo tempo –, ma mi sembra di ricordare che cantavo bene. Come tanti prima di me, mi capitava di cantare in chiesa. Il dover fare la comunione obbliga a seguire il catechismo, e quando fai il catechismo si va a messa, e se canti bene ti mettono a cantare. E a me veniva bene.
Poi, arrivato a Philadelphia, nella scuola statunitense in cui andavo, che era una scuola cattolica, si cantava un sacco. Perché c’era la messa – cui dovevi andare per fare la “donazione” settimanale a Father Mortimer, che aveva una Cadillac lunga quanto un autobus – e perché, come ogni scuola anglosassone che si rispetti, la dimensione dello spettacolo era molto curata: c’era il teatro, la danza, il saggio, il musical di Natale o di Pasqua fatto di noi nanetti travestiti alla meno peggio che inscenavamo ora la natività, ora la via crucis, ora qualcos’altro. E sì, anche lì si cantava come se non ci fosse un domani.
A un certo punto, tornato in Italia e iniziate le scuole superiori, mi è cambiata la voce, e non ho più cantato. La trasformazione è stata progressiva, incluso un periodo odioso di indecisione vocale, in cui la mia vocina bianca si trasformava in maniera inaspettata con delle note basse e gracchianti che mi facevano inorridire e vergognare. Ma, man mano che si stabilizzava, ci prendevo gusto. Perché alla fine della trasformazione mi è venuto un gran bel vocione, profondo e forte.
A scuola c’era chi mi chiamava “er grotta”, per la profondità da cui sembrava arrivare la voce. Non c’era verso di sussurrare, le professoresse e i professori mi scoprivano sempre: “Iaconesi, ti sento, laggiù”. Nonostante questi piccoli inconvenienti, sono sempre stato molto soddisfatto della mia voce: è radiofonica, intonata, e penso anche di saperla usare abbastanza bene, riuscendo a dare delle enfasi comprensibili e a marcare i concetti importanti con le pause e l’espressività.
Ho usato sempre la voce anche nella mia espressione artistica. Non tanto nel canto, a cui ho perso l’abitudine, ma con la lettura e la performance dialogica.
Proprio di recente, a Torino e a Bologna, ho messo su una performance in cui i dati sulla povertà estrema nel mondo diventavano un reading performativo in cui narravo una storia globale della povertà, dall’anno 1 ai giorni nostri. Ed è sempre stato così: la voce è sempre stata al centro della mia espressione. Capirete, quindi, la mia preoccupazione quando ho appreso che il mio tumore era in piena area di Broca, la parte del cervello collegata al linguaggio, alla scrittura, alla lettura e alla coordinazione motoria della voce.
Nel 2013, dopo il primo intervento, ho dovuto ri-imparare a scrivere. Appena tornato in camera, all’ospedale, ho chiesto il mio blocchetto su cui prendo appunti e su cui faccio schizzi e diagrammi, e ho provato a scrivere. Parole e frasi a caso. All’inizio proprio non mi usciva nulla: stecchette, segnacci e sgorbi incomprensibili. Parlare no, non c’era problema. Ma quando si trattava di scrivere era un disastro, era come se mi fossi completamente dimenticato come coordinare i muscoli della mano per tracciare quei segni che prima erano così familiari.
Poco dopo, pian piano, grazie alla plasticità del cervello, le funzioni espresse dai circuiti neurali hanno trovato vie alternative per esprimersi, e ho progressivamente imparato di nuovo a scrivere. Il processo non è stato privo di effetti collaterali, però. Ad esempio, a oggi, non ho più una firma. Nel senso che non ho più riacquistato il gesto del firmare. Non esiste più un gesto che sia così associato alla mia identità: non sono più in grado di fare due firme uguali o confrontabili. La gioia dei notai.
IL CANCRO E LA CAPACITÀ DI COMUNICARE
Però, tutto sommato, la mia capacità di esprimermi usando le parole, la voce e l’intonazione non ha subito danni gravi. Questa volta, invece, in occasione della recidiva del mio cancro al cervello, è stato differente.
Questa volta, nel 2020, il cancro è sceso in profondità. Fino a toccare i tessuti connettivi. Quelli che dalla centralina di controllo del cervello portano i segnali alla loro destinazione nei muscoli, tessuti e sistemi del corpo.
Dopo l’operazione la sensazione era molto particolare. Come l’altra volta, mi era impossibile far coordinare i sistemi e i muscoli degli apparati della vocalizzazione, per trasformare i miei pensieri in parole pronunciate con un senso.
Le parole, dentro di me, si formavano nei pensieri: ero capace di formularne anche di complessi subito dopo l’operazione. Ma vocalizzarli: niente. Potevo sentire fisicamente, mi vien da dire, che c’era un blocco: le parole, così chiare nella mia testa, quando arrivavano alla gola e alla bocca si trasformavano in dei grugniti, in dei suoni senza senso. Era un effetto che mi aspettavo, vista l’esperienza dell’altra volta, ma aggravato da un livello di fatica e stress maggiore, e da un maggiore senso di frustrazione.
I giorni seguenti, pur cercando di riposarmi, ho organizzato una serie di esercizi che mi avrebbero reso chiaro un eventuale progresso della mia capacità di linguaggio: scrivere una paginetta, mezza inventandomela e mezza copiando da un testo; lettura ad alta voce, lentamente, cercando di scandire bene le parole e di azzeccare le intonazioni. Il tutto in italiano e in inglese. I progressi si manifestavano, ma anche i limiti. Facevo uno sforzo enorme anche per fare piccole cose che hanno a che fare con il linguaggio. Uno sforzo che fa il paio con una sorta di velo, di ottundimento che non sembra essere una condizione temporanea, ma uno “stato”. Muovermi tra le parole – scritte sulla tastiera, disegnate con la penna o pronunciate a voce – era diventato faticoso come muoversi in un fango denso, che oppone resistenza.
Anche ora – seppure la situazione sia migliorata – mi risulta difficile scrivere queste parole, concentrarmi. Ho un’esperienza fisica del pensiero – nella carne. Man mano che tagliano pezzi di cervello, diventa più difficile concentrarsi, coordinarsi, pensare e fare le cose quando c’è rumore, movimento, anche solo scrivere sulla tastiera, perché movimenti che prima erano automatici ora non lo sono più, e devo concentrarmi per scrivere ogni lettera, cancello e riscrivo di nuovo.
È per questo che in questi giorni scrivo così tanto. Quasi chi se ne frega che c’è scritto. È un atto della carne, perché devo vedere, ogni giorno, se riesco ancora a farlo.L’altro giorno con Oriana [Persico, N.d.R.] abbiamo partecipato a un tavolo di discussione online, tra i mille di questa pandemia. La discussione online era registrata, e così ho potuto risentire ciò che avevo detto. Ho avuto una sorpresa amara. Durante il dialogo ero convinto di aver pronunciato un discorso strutturato, e che procedesse di passo in passo in modo da risultare comprensibile. Mi sembrava, addirittura, di aver in qualche modo ovviato alle difficoltà espressive che stavo avendo in questi giorni. Forse sono anche troppo severo con me stesso. Ma in un certo senso devo esserlo: per una persona come me, in cui la dimensione della comunicazione è centrale per la vita professionale – nota: lo è per tutti, e lo sta diventando sempre di più, ma capirete che per un artista, ricercatore e docente è proprio, proprio importante –, la voce e il potersi relazionare usandola è realmente un elemento fondamentale.
Lo shock: dal vivo, quando è possibile anche usare il corpo per aiutare il messaggio a passare, si capiva e seguiva tutto, ma al solo ascolto no.
Ciò che ho ascoltato era una sorta di sforzo disperato di comunicare. Uno sforzo che, almeno a me, rendeva odioso l’ascolto, sofferente a mia volta. La sofferenza e la percepibilità dello sforzo del comunicare erano più comunicati del messaggio che avevo cercato di far arrivare. Ora: io non so se sia una mia impressione, anche sicuramente aumentata dalla sensibilità che ho acquisito su questo tema negli anni. Anzi, vi invito, se avete tempo e voglia, ad aiutarmi a capire meglio questo fenomeno. Anche se lo fosse, non ha molta importanza. Perché alla base ci sarebbe sempre una persona in difficoltà, e il cui accorgersene aggrava la situazione. Per questo tipo di problemi ci sono, per fortuna, tante soluzioni possibili: logopediche, psicologiche, tecniche di respirazione e di rilassamento, yoga, esercizi fisici. Oppure, nei casi più gravi, non c’è soluzione: le cose peggiorano progressivamente, finché la persona non riesce più a comunicare. Non mi sembra che quest’ultimo, adesso, sia il mio caso. Ma un po’ anche sì. Perché quando si è in queste condizioni, il caso tragico è quello che ti si apre costantemente davanti agli occhi. “Che succederà quando non riuscirò più a parlare?”
Quando. Non se.
Perché il cancro ritorna, le condizioni peggiorano, e gli effetti collaterali delle terapie… eccetera, eccetera, eccetera.
Questa è la condizione di chi vive le malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer, le forme di demenza, il Parkinson, oltre naturalmente ai tumori cerebrali e tutte le altre malattie degenerative che colpiscono il sistema nervoso. Fino a quando riuscirò a parlare? A essere autonomo? A esprimermi? Ad affermare e chiedere quello che voglio? A rappresentarmi? A ricordarmi le cose? Tanti “fino a quando?” mentre le malattie procedono, le cellule cancerose si moltiplicano e tutte quelle cose lì.
Ecco, è l’ora di tornare alla domanda iniziale: che cosa mi ha insegnato tutto questo? Mi ha insegnato che, tutto sommato, sono fortunato. Per tanti motivi.
ARTE, SCIENZA E CURA
Il primo: che il mio caso, almeno per adesso, non è assolutamente grave come quelli di altri miei “colleghi” di malattia, a cui vanno tutto il mio affetto, la mia solidarietà e la mia costante disponibilità.
Il secondo: in ogni caso, questa condizione per me esiste, e questo fatto mi ha permesso nel tempo di sviluppare una sensibilità aumentata alla sofferenza e alle paure dell’essere umano, cosa di cui mi reputo fortunato, perché è questa capacità di essere sensibile e di ascoltare che ci fa diventare persone migliori, individualmente e nella società.
Il terzo: viviamo in un momento storico in cui una collaborazione forte tra Arte, Scienza, Tecnologia e Società può veramente essere d’aiuto per tutte queste problematiche.
Viviamo un in mondo complesso e complicato, in cui scienza e tecnologia sono allo stesso tempo la nostra salvezza e il pericolo maggiore che corriamo. La scienza può salvare dal cancro, ma può anche determinare definitivamente il collasso climatico. La tecnologia può permetterci di esprimerci come non mai nella storia dell’essere umano, ma può anche essere l’arma perfetta dei governi autoritari. E così via. Questo tipo di giustapposizioni sono dappertutto. E non si tratta di problemi morali o di libero arbitrio. Certo, posso scegliere di usare una certa tecnologia per farti male o per farti godere. Ma c’è qualcosa che viene prima di questo fatto, e questo qualcosa riguarda la possibilità e l’opportunità di immaginare, il desiderio, il senso di cosa sia possibile e preferibile: da questi dipendono la cultura e la relazione con la scienza e la tecnologia. La mia, quella di tutti gli altri, e il rapporto che vi si crea, in una rete interdipendente.
Nonostante tutto, posso affermare che siamo veramente fortunati.
L’innovazione scientifica e tecnologica, lavorando sulla biologia, sulla comunicazione, sui dati, sulla computazione e su tante altre cose – e ragionando su come queste cose possano convivere, coesistere e collaborare tra loro, portando simultaneamente il tutto più vicino al mio corpo/mente, e il mio corpo/mente fuori, nell’ambiente (fisico, comunicazionale, psicologico, politico…) – possono permetterci una evoluzione che è allo stesso tempo biologica e culturale.
Allo stesso tempo, però, tutte queste cose di cui stiamo parlando corrispondono a processi estrattivi. La scienza e la tecnologia, ora, estraggono. Questo è il loro modello: dall’ambiente, dai nostri comportamenti, dai nostri corpi, dalla nostra psicologia, dalle nostre relazioni. Estraggono per sfruttare. Che sia tramite un pozzo di petrolio o tramite una piattaforma online fa poca differenza.
Questo è possibile perché scienza e tecnologia, oggi, avvengono nella separazione: dell’industria, del laboratorio, del data center. Lontano dalla nostra sensibilità, tutto può essere estratto e trasformato in servizio, in prodotto, così da poterlo consumare: polli da batteria che consumano le feci e i cadaveri dei loro simili.
Portare l’arte in questo ciclo può trasformare questo modello. Portare l’arte in questo loop vuol dire, infatti, reinserire la sensibilità, i sensi, il sensibile nel modello, trasformarlo radicalmente: rendere il modello sensatile, atto alla sensibilità, alla coesistenza senziente invece che alla separazione anestetica.
CANTO, VOCE E DATI
Qualche tempo fa, sui suoi profili social, Oriana, mia moglie, ha pubblicato questo video meraviglioso:
Si parla del Canto a Tenore, uno stile di canto corale sardo. Io l’ho trovato meraviglioso, e per niente casuale: ha, infatti, molto a che vedere con tutto il nostro discorso.
Dalla pagina di Wikipedia:
“Si ritiene che il canto a tenore sia nato come l’imitazione delle voci della natura: su bassuimiterebbe il muggito del bue, sa contra il belato della pecora e sa mesu boche il verso dell’agnello, mentre il solista sa boche impersona l’uomo stesso, colui che è riuscito a dominare la natura”.
Il solista, l’uomo stesso, è colui che è riuscito a dominare la natura: la scienza e la tecnologia. Però in un contesto, una prospettiva e una cosmologia differente, in cui l’essere umano è in dialogo attivo con la natura, ci canta insieme. E cantando, a suon di frequenze, ritmi e battimenti, si immerge (e immerge tutti i presenti) in questo rapporto, in uno stato di coscienza alterato che è simile alla trance, in cui nessuna separazione è possibile: tutto è sensibile.
La voce.
Forse la mia prossima performance Datapoietica unirà dati e canto a tenore. Forse nascerà un nuovo rituale in cui le frequenze dei cantori rappresenteranno altri elementi della società e dell’ambiente attraverso i dati. Forse uno dei cantori non sarà nemmeno umano: sarà una intelligenza artificiale, o un bosco, o un animale, in base a come sapremo usare le tecnologie per comunicare trans-specie, o ancora in altri modi.
Forse saremo in grado di scoprire una scienza e una tecnologia che, tramite l’arte, saranno anche capaci di avere a che fare con la tragedia, quando la soluzione non c’è, e arrivare alla dimensione dell’agnizione: in cui ci si riconosce, e si cambia stato, riposizionandosi, e iniziando una vita e una via nuova.
E forse, alla fine, io troverò un altro modo di esprimermi, dopo tutto.
Forse inizierò di nuovo a cantare.
‒ Salvatore Iaconesi
– qui l’articolo originale su Artribune